Dacci oggi la nostra notifica quotidiana

Cena con amici: in cinque attorno al tavolo. Non li vedo da tempo, mi fa piacere passare una serata con loro. Non li descriverò, non scenderò nei dettagli dei nostri discorsi: non è questo l’argomento che voglio trattare. Forse, lasciare che il lettore immagini, che riempia i vuoti descrittivi con quello che gli è più familiare, farà sì che senta più vicina la situazione, possa immedesimarsi; anche se, a questa cena, uno dei commensali non è più su Facebook, e questa invece è una cosa decisamente inusuale, che è capitata a pochi. Non so se esistano statistiche sui fuoriusciti da FB, non c’è modo di contare gli scomparsi, se non nella propria limitata esperienza personale; sempre che degli scomparsi ci si ricordi. Durante questa cena avvengono alcuni fatti interessanti.

Il primo fatto è che circa la metà dei temi di cui gli amici discutono io non li conosco, non so di che cosa stiano parlando. Fanno riferimento ad una certa fotografia, ad un post, ad una serie di commenti che io non ho avuto modo di vedere. Iniziano con “avete visto [nome] che cosa ha scritto?” e io no, non ho visto. Oppure discutono dei commenti di Tizio o di Caio ad una notizia di cronaca, di cui io sono a conoscenza ma i commenti invece no, non li ho potuti leggere. Allora sto zitto, cerco di seguirli ugualmente con attenzione, e avviene il secondo fatto.

Il secondo fatto che accade è che mi devono spiegare. Quando si accorgono che io non ho visto, non so, mi descrivono che cosa è successo su Facebook. Seguo la loro descrizione di un accadimento digitale, mi concentro su quella e non guardo lo schermo dei cellulari che mi tendono per farmi vedere – come una specie di supporto al loro racconto. Ricordo dagli studi classici: in greco antico, l’aoristo del verbo ὁράω (che si pronuncia orào, e significa io vedo) è oἶδα (oida) che significa “ho visto”, ma in realtà si può tradurre “io so”. Loro sanno perché hanno visto, io no, e allora me lo devono far vedere, affinché io sappia. Se avessi visto, saprei. “Ecco, guarda” e tengono in mano il cellulare rivolto verso di me.

Fortunatamente, si parla anche di fatti avvenuti fuori da Facebook, e posso tornare ad interagire anche io con loro. L’attenzione dei miei amici si divide, durante la cena, tra quello che sta accadendo lì, in quel momento al tavolo, e quello che sta accadendo altrove, attraverso la finestra degli schermi dei loro cellulari. La loro è una realtà aumentata (anche se il termine è improprio, perché la realtà aumentata è altro, ne scrivevo qui nel 2014). Forse sarebbe meglio scrivere: è una realtà espansa, non necessariamente legata alla fisicità del corpo in un luogo. La loro percezione si è liberata del limite imposto dalla presenza fisica, e possono vedere cose che sono avvenute e avvengono altrove. Con tutti i se e i ma di cui scrivevo nelle precedenti parti di questo diario Sfacebook, ovviamente: chi posta cosa, come, quali gli algoritmi di visibilità, e le questioni legate alla percezione nello spazio di uno schermo… Per me, che non frequento quello spazio espanso come loro, è come se mi giungesse l’eco narrativo di fatti distanti, filtrati dai loro racconti. Il loro è un mondo ovviamente più vasto, non sono solo dove sono i loro piedi, ma anche altrove.

Poi accade l’ultimo fatto: dopo due ore circa di tira e molla con i cellulari, e spiegazioni che mi devono per non tenermi al margine dei loro discorsi, la loro attenzione si concentra tutta su di me. “E tu, Roccio? Come va? Che fai?” ed io mi rendo conto che no, non sanno quasi più niente di me, tranne che per quel poco che ci si dice su Whatsapp, più che altro informazioni pratiche, dove ci si trova, quando. Uno di loro dice: “Non ricevendo più notifiche da te…

Ecco: non ricevendo più notifiche da me. Era Facebook che spalleggiava la mia presenza nella vita degli altri (in modo più forte in quella di quanti erano distanti e non avevano modo di vedermi spesso; e in modo più debole in quella di quanti avevano più interazioni con me anche nel mondo fisico). Non metto in dubbio che si ricordassero di me, di tanto in tanto. Due algoritmi a confronto: quello della memoria, del ricordo di me negli altri e i suoi meccanismi (qualcosa che loro incontrano e che fa riemergere il ricordo di me); e l’algoritmo di visibilità digitale di Facebook: fare qualcosa (postare una foto, scrivere un commento, invitare ad un evento) che fa sì che io appaia a loro, e loro sappiano di me, e ricordino, ed io esista nelle loro vite.

Due aspetti su cui riflettere: nello stare a distanza, il dover fare sul digitale per apparire nella mente degli altri, confrontato con l’affidare la propria apparizione mnemonica ai meccanismi della mente e a quello che è accaduto, ma solo nel passato. Fin qui, niente di male: è evoluzione, e quanto bene ne possiamo trarre, sicuramente, se la gestiamo nel migliore dei modi. Ma chi controlla quella notifica che ricorda di me agli altri (e fa sì che io sia presente, esista) ovvero il gestore che decide le regole di apparizione, ecco: è lui che controlla parte della nostra percezione della realtà, e quindi parte della realtà stessa. E se la diamo per vera, per certa e oggettiva, anche le nostre azioni, di conseguenza, saranno calibrate su di essa.

Per i precedenti articoli Sfacebook, dal più recente al più vecchio, clicca qui

Sfacebook – Pulsante, pulsante
Sfacebook – ovvero la Nuova Esposizione Universale
Sfacebook – come si scende dall’autobus?
Sfacebook – il giorno prima di andare via

Letture consigliate:

J.Lanier, 10 ragioni per cancellare subito i tuoi account social. Saggiatore
A.Baricco, The game, Einaudi
K.Goldsmith, Perdere tempo su internet, Einaudi
J.Maeda, Le leggi della semplicità, Bruno Mondadori

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