Trascrivo qui, e provo a rispondere
alla domanda di un caro amico.
Non ho chiesto il suo permesso, ma mi perdonerà.
“Caro Andrea, ritengo che questa tua esplicativa sul performer [clicca qui per l’articolo a cui si riferisce] sia lo scritto più interessante tra quelli tuoi che ho letto. Mi pare esista una connessione strana, ma esatta, tra performance e atto di pensiero prima del suo costrutto verbale. […] Una domanda importante sarebbe questa: cosa diventa il pensiero del performer esercitandosi nell’approccio indefinito?”
– A. De Vita.
Provo molto imbarazzo a questa tua domanda. Eppure voglio tentare una risposta. Il disagio è il coperchio di qualcosa, forse un nervo scoperto, un’equazione irrisolta, una debolezza tenuta nascosta. Oppure una cosa tenera, a cui tengo, da trattare con cura.
Premetto che non credo sia possibile definire a parole come mi sento dentro ad una mia performance. Le parole sono bicchieri piccoli, non riescono a cogliere il fluido di un fatto nella sua interezza, soprattutto se contraddittorio come quello che mi chiedi di descrivere.
Ho imparato che le parole vanno usate con cautela. Sono ipertrofiche e prepotenti di secoli di dualismo, violenza, decorazione dell’ego. Eppure, sono così belle e struggenti nel loro anelito impacciato alla verità. E tanto basta per provare ad usarle, ancora una volta.
Quando agisco in una performance, sono presente e non sono presente allo stesso tempo. Potrei paragonarlo forse allo stato del bambino immerso in un gioco: la realtà pensata e quella materiale, quando avviene quello stato di grazia, si prendono per mano.
Durante una performance la mia finitezza, la frattura irreparabile, l’incompletezza dell’essere umano è presente: ma non è più dolorosa. Come se tutto fosse equidistante, niente riempisse del tutto il campo visivo in una versione univoca e dispotica della realtà.
Questo non significa che sia una condizione atarassica: percepisco il dolore, la gioia, la tensione, la rilassatezza, ma niente è importante e tutto lo è, come se fosse saltata la scala di valore con la quale mettiamo in ordine di rilevanza le cose e gli stati emotivi.

Questo stato di grazia, se così possiamo definirlo, non si presenta ad ogni performance, e quando accade ha sempre un volto diverso dalla volta precedente, seppur riconoscibile. Resta sempre un passo oltre: lo inseguo, lo sfioro, e si sposta, ad ogni performance.
Con Luca Bonfanti del Neuroscience Institute avevamo sperimentato come seguire uno spettacolo dal vivo attivi neuroni specchio che, invece, non si innescano osservando uno schermo. Essere partecipi: è una condizione molto significativa, e in parte misteriosa.
Anche questo è un aspetto della questione: la performance è essere presenti mentre accade qualcosa, che poi si colloca solo nel passato, a differenza di altre arti che possono essere fruite dilazionate nel tempo, anche più di una volta, e senza la presenza dell’artista.

Nella performance è nascosto, ma acuminato, lo spillo doloroso dell’istante che passa, l’abbacinante consapevolezza del tempo che scorre. Cerco di non ripetere mai la stessa performance più di una volta: è una forma di devozione alla mortalità, all’essere nel tempo.
Per non divagare troppo, e tornare alla tua domanda: il pensiero è presente, ma si ritrae, lascia spazio e parola ad altre cose, materiali ed immateriali. Diventa uno degli elementi dell’azione, ma sicuramente non si pone al centro. Performare è anche un atto di umiltà.
Aggiungo e concludo: c’è poi un certo silenzio, durante un’azione performativa, che vorrei definire sacro se questa parola non fosse già carica di troppi e altri significati. Un coltello che cade, un filo che si spezza, un respiro, tutto ha la sua precisa, inequivocabile voce.