La poesia non esiste.

La poesia non esiste.
La stessa pagina fotografata ripetutamente,
in orari e luoghi diversi.
Performance, 2023.

Poetry does not exist.
The same page photographed repeatedly,
at different times and places.
Performance, 2023.

La poésie n’existe pas.
La même page photographiée à plusieurs reprises,
à différents moments et lieux.
Performance, 2023.

 

Roccioletti

 

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Da “La poesia non esiste” di E.Montale, a cura di Vanni Scheiwiller, Stamperia Valdonega di Verona, copia 1323 di 2000, 1971.

 

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roccioletti.com
#performance #poesia #corpo

 

13 variazioni sull’Infinito di G.Leopardi.
Serie: straduzioni.
Variazioni sul testo, 2019.

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La ridondanza.
10 poesie scritte a mano, stufa a legna.
Audio: F.Guattari, Sulla ridondanza dell’informazione,
Université de Vincennes, 1975.
Ambiente: Yurta nel bosco.
Performance, 2020.

Procedimento: gli originali delle poesie
vengono bruciati ad uno ad uno nella stufa.
Copia digitale di ogni poesia è scaricabile
una volta soltanto, da un solo utente,
e poi si autodistrugge.

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Una performance lentissima.
Spille, acrilico blu, ritagli
dal libro di poesie “Basta così”
di Wisława Szymborska (Adelphi).
Performance, 2020.

Processo: le parole ritagliate
dalle poesie, in sequenza, vengono applicate
alle spille. Ogni giorno viene indossata
una spilla diversa.

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Chimica poetica.
Capsule di gelatina, poesie, portapillole.
Installazione edibile, 2021.

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Definizioni.
Etichette Dymo in rilievo, corpo,
pastello a cera, pagine di saggio
sulla poesia ermetica, 1947.
Frottage e performance, 2023.

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Altri percorsi.

 

“A fronte dell’opacità del «corpo che abbiamo», il corporale invece è per eccellenza visibile e in continuo movimento, secondo traiettorie contemporaneamente esteriori e simboliche; questa visibilità fa sì che il corpo degli altri sia sempre «un’immagine per me» e lo stesso accada per noi agli occhi altrui. «Immagini» dunque, ma non figure, cioè semplici superfici e contorni. Infatti, in questo loro muoversi, le membra perdono via via la separatezza a cui le conduce lo sguardo scientifico e il corpo viene percepito nella sua unità; nel frattempo le diverse parti del corpo man mano si allontanano dalla loro opacità materiale e si caricano di senso. Il luogo in cui con maggior chiarezza si svolge questo processo è il viso, che non ci si presenta mai come somma di dettagli anatomici, ma come spazio dell’espressione e del carattere individuale, insomma come volto. Ma questo caricarsi di senso può avvenire per tutto il resto del corpo, come mostra l’esempio della mano fatto da Sartre: «Guardando il dorso della mia mano vi scopro vene che percorrono un certo tracciato […] ma perché sono proprio lì dove le vedo? Perché sono conformate in questo modo e non in un altro? Nessuno può rispondere a questa domanda. E tuttavia esiste una situazione in cui io cesso di torturarmi su questo problema. Non appena una persona, una donna che mi ama e che io amo, mi accarezza la mano, mi sento convinto che le vene seguono il tracciato che è bene ed è giusto che seguano. La carezza cancella l’accidentalità della mia mano e la trasforma proprio nella mano che fa per me, che è bene che io abbia». Il movimento è allora la modalità con cui entriamo in contatto con le immagini degli altri nella vita quotidiana: persone che si vestono, si acconciano, camminano, si siedono o si alzano, impugnano oggetti, assumono espressioni sul volto. Tutto questo è familiare e leggibile, ma anche potenzialmente estraneo e caotico. Basta fermarsi infatti su una sola delle azioni della nostra esperienza quotidiana – stare seduti, ad esempio – per accorgersi che lo si può fare in modi molto diversi e, cosa ancora più rilevante, che ciascuno di questi modi porta con sé un tono: eleganza, disponibilità, distacco, rigidità, chiusura e molto altro. La conclusione è che, molto più spesso di quanto si sarebbe detto, ricaviamo il carattere di una persona dal solo modo con cui si è seduta di fronte a noi; se poi ci spostiamo verso altre culture, ci accorgiamo che vi sono maniere del tutto diverse dalle nostre di sedersi – magari senza usare sedie o sgabelli, accovacciandosi – e le cose si complicano ulteriormente. Lo scorrere confuso di questo movimento non ha bisogno di parole; abbiamo imparato a sederci in questo o in quel modo e a realizzare tutte le altre «tecniche del corpo» non attraverso istruzioni verbali, ma grazie alla semplice imitazione degli altri. Eppure ogni tanto abbiamo bisogno di fermare il flusso ininterrotto dei nostri movimenti e di quelli altrui perché diventa come un obbligo parlarne: è avvenuto qualcosa che non importa se in senso positivo o negativo – ha bloccato, ha sospeso questo continuo fluire e ci sentiamo costretti a esprimere apprezzamento, sorpresa, sconcerto, disprezzo, commozione per una posa, un atteggiamento, una mossa. È a questo punto che ricorriamo al concetto di «gesto», perché abbiamo bisogno di isolare quella porzione di movimento che, per una ragione o per l’altra, ci è sembrata così speciale. In questo modo, la corrente indistinta dei movimenti ci appare leggibile e quel momento specifico – quel «gesto» appunto – ci sembra dotato di un significato vero e proprio. Ed è sempre a questo punto, colpiti dall’eloquenza di un gesto, che usiamo volentieri la metafora del corpo che «parla», che comunica – a modo suo, certo – come fosse un testo. Ma è proprio così? Già nel Cinquecento François Rabelais aveva giocato su questo equivoco e aveva immaginato che «un gran dotto d’Inghilterra» sfidasse Pantagruele a una disputa filosofica «solo per segni, senza parlare»: nel luogo scelto, tra lo stupore degli intervenuti, una dietro l’altra, i due assumono le pose più inverosimili, complicate (e comiche), sfidandosi in un botta e risposta totalmente silenzioso, fino a che, stremato, il «gran dotto» si dichiara sconfitto dalle pose dell’avversario, assurdamente eloquenti. Nel corso del libro si vedrà allora come il piano della corporalità non sia mai pienamente riducibile a quello della parola, e viceversa. E proprio per questo si assisterà a una storia di inseguimenti: quello in cui il corpo, caricandosi di segni, tenta di trasformarsi in un testo leggibile e quello in cui la parola corre invano dietro la complessa ricchezza della corporalità, che non si lascia mai prendere. E proprio i gesti e le immagini – segmenti isolati nel movimento generale dei corpi – sono gli strumenti di questo doppio inseguimento.”

Claudio Franzoni,
“Da capo a piedi.
Racconti del corpo moderno”, 2013.

 

Roccioletti

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Alberto Breccia
“Gli uomini dagli occhi di piombo”
A cura di Beppi Zancan.
Buenos Aires 1962,
Edizione  italiana 1974.

 

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corpi.blog
a work, in progress.

#corpo #teatro

 

Il corpo automatico.
“Secondo Katia Pizzi (“Pinocchio e il corpo meccanico: trasposizioni visive tra J.J.Grandville e Jarry”) Pinocchio è la creatura moderna per eccellenza. Il diciannovesimo secolo ha prodotto il mostro – assemblato e meccanico – del dottor Frankenstein (Mary Shelley, 1818) e Olympia, la bambola automatica dell’Uomo della Sabbia (E.T.A.Hoffmann, 1816), la locomotiva e le macchine tessili della prima rivoluzione industriale; numerosi poeti, scrittori e intellettuali (tra i quali Carducci, D’Annunzio, Marinetti e lo stesso Collodi), ad un tempo con nostalgie pastorali ma assediati da una modernità esuberante e perturbante, sono circospetti sostenitori del progresso tecnologico e meccanico, spesso osservato attraverso le lenti della nostalgia del neoclassico.” Prosegue qui.

 

Il corpo coreografico.
Grecia, secondo millennio a.C.
“Secondo William Forsythe, la coreografia è inscindibile dal corpo umano in azione. L’idea coreografica si materializza, storicamente, in una sequenza di azioni organiche; l’attuazione dell’idea non può essere ripetuta nella totalità delle sue dimensioni con altri mezzi. Tanto struggente quanto effimero, l’atto: la sua natura transitoria non permette esami prolungati né la possibilità di letture oggettive, come invece il linguaggio consente per le scienze oppure per altri rami delle arti, che lasciano artefatti sincronici per ispezioni dettagliate. Questa assenza di persistenza nel tempo, come d’altronde è il corpo stesso, è naturale ma sospetta allo stesso tempo: da un lato si esplica nell’irrecuperabilità dell’azione coreografica, dall’altro genera un sentimento nostalgico. Sottovalutato se non addirittura denigrato da secoli di aggressione ideologica, il corpo in movimento – ovvero il miracolo dell’esistenza – è ancora relegato al dominio del senso grezzo: precognitivo, analfabeta, materiale, non pensato, non razionale.” Prosegue qui.

 

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Roccioletti

Roccioletti

Pablo Picasso,
“Les quatre petites filles”,  1946.
“Le désir attrapé par la queue”, 1968.
Editions Gallimard.
Ubulibri 1984.

 

Roccioletti

Donata Righetti,
“Il principe triste è diventato clown”,
a proposito dell’Amleto di Carmelo Bene,
su “Il Giorno”, 28 ottobre 1975.

 

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