Perché mi faccio male
– una risposta collettiva –
L’ultima performance in questione che ha scatenato una raffica di domande è stata questa.
“Perché ti fai del male?” Spesso, in occasione di alcune mie performance, ricevo questa domanda da chi mi segue.Innanzitutto, non è detto che “mi faccia sempre del male”: dipende dalle situazioni. Il gesto performativo comporta ogni volta una certa dose di rischio. Scendere dalle scale comporta una dose di rischio, così come guidare un’automobile, fare il bagno con il mare agitato, prendere il sole senza protezione solare, e via dicendo. L’arte non è un gioco di prestigio, quindi il rischio di ferirsi c’è, sempre. Alle volte è calcolato, alle volte meno, alle volte è alto, altre minimo.
In ogni caso, si è sempre… “toccati” da quello che si fa. In un mondo che vive la connessione a distanza e il virtuale (credendo, erroneamente, che questo preservi, tenga lontano, non tocchi) il lavoro sul proprio corpo può essere perturbante, così come perturbanti sono le conseguenze delle proprie azioni sugli altri: per quanto ci si possa credere non-responsabili di quello che avviene attorno a noi, ogni nostro gesto, in qualche modo – anche l’indifferenza – produce conseguenze. Il lavoro sul corpo significa (anche) affermare: ogni cosa è, in qualche modo, interconnessa in profondità, e non ci si può tirare fuori da questo, mai.
Anni di cattiva informazione in merito al concetto di performance hanno creato falsi miti. Falsi miti molto virali, però: quello dell’artista masochista, ad esempio, che per attirare attenzione si fa del male, quello dell’artista che non ha rispetto del proprio corpo, e via dicendo. Certo, esistono casi come questi, ma c’è anche altro. Semplicemente, il mondo della Rete rende più appetibili le notizie di un certo tipo, piuttosto che altre. Il messaggio breve e incisivo, piuttosto che la spiegazione estesa e profonda. L’immagine, piuttosto che il testo. Il commento, sempre e comunque, invece che la riflessione personale (che ha bisogno dei suoi tempi, della sua sedimentazione).
Lavorare, in modo performativo, sul proprio corpo, può anche essere una ricerca del limite. Gli atleti lo fanno quotidianamente. Anche chi lavora ad un progetto puramente “intellettuale”, seduto alla propria scrivania, fino allo sfinimento, in qualche modo cerca il limite. Alcune conseguenze di questo superamento del limite sono immediatamente visibili (uno stiramento per chi corre i cento metri), altre invece a distanza di anni (problemi alla schiena o alla vista in chi sta sempre seduto davanti ad uno schermo). Per non parlare dei prezzi economici, di tempo, di energie, morali… Non ci sarebbe evoluzione, scoperta, progresso, assolutamente niente di tutto questo. Ogni cosa ha un prezzo da pagare. Che cosa sei disposto a perdere per raggiungere quello che desideri?
Nel 2016 si sono registrati 783.000 incidenti domestici. Eppure, continuiamo a restare a casa, perché quello è il luogo dove vogliamo stare. Perché fumiamo, se sappiamo che ci fa male? Perché mangiamo cose che sappiamo ci faranno male? Perché perseveriamo con comportamenti che non ci fanno stare bene? Allora, forse, il distinguo sta nel fatto che questi comportamenti restino nella sfera privata oppure vengano portati nella sfera pubblica, alla luce del sole. Che siano socialmente e culturalmente accettati, oppure no. Che restino nascosti, oppure che qualcuno li affronti, li metta sulla strada così che ci si debba confrontare, oppure scavalcarli facendo finta di niente.
Lungi da me avere la presunzione di poter dare, infine, una risposta “valida sempre” per il gesto performativo che mette a rischio, in qualche modo, l’incolumità dell’artista. Mille altre variabili potrebbero essere prese in considerazione: quelle psichiche, quelle artistiche, e via dicendo. Considerate questi qui sopra… pensieri sparsi e senza molta mediazione. Aperto al dialogo, aspetto i vostri commenti.
Ringrazio l’amico artista Michele Di Erre per avermi trascinato, e per essersi lasciato trascinare, in questa performance.