Tableau vivant

Tableau vivant.
Performance e installazione, 2025.
Deportato. Mohamed Shahin libero.

Agire nello spazio pubblico come inneschi di interferenza, slavorando sull’attrito relazione tra corpi, città e narrazione istituzionale, in una genealogia di pratiche performative sovversive, dove gesti e cose minimeprecise — un cartello, una catena, un lucchetto, una presenza non autorizzata — diventano attivatrici di cortocircuiti semantici. L’azione sulle statue torinesi, con l’affissione di targhe recanti la parola deportato, si inserisce in questa logica di sabotaggio poetico: operazione chirurgica sull’immaginario urbano, che mette in discussionecrisi la monumentalità e il regime simbolico che ogni monumento incarna.

Le statue, tradizionalmente (traditoriamente) concepite come dispositivi celebrativi, elementi di fissazione e rafforzamento della memoria, presidi dell’identità civica, diventano superfici sensibili dove innestare una contro-narrazione. La parola deportato — secca, inequivocabile, non mediabile — incrina la retorica trionfale del marmo e del bronzo. Il monumento, anziché ricordare la gloria, diventa improvvisamente un corpo vulnerabile, esposto all’arbitrio del potere, come lo è chi oggi subisce la violenza sistemica delle deportazioni, delle espulsioni, delle detenzioni amministrative. L’innesto linguistico funziona come fessura, come apertura nell’autorappresentazione della città.

La vicenda di Mohamed Shahin, arrestato e in attesa di deportazione, costituisce il detonatore etico della performance. Non si tratta di illustrare un fatto di cronaca, bensì di attivare un parallelismo fisico e concettuale: ciò che accade ai corpi (residenti, migranti, e il non senso di queste dicotomie) è reso visibile spostando il discorso sulle figure che la città ha scelto di scolpire, elevare, fissare nell’eternità. La statua deportata è un paradosso: simbolicamente inamovibile, eppure catturata, marchiata, resa oggetto di un potere arbitrario. Il monumento, investito di un abuso, mostra la condizione di fragilità del presente. L’azione lavora su questa contraddizione, aprendo uno spazio critico tra ciò che la città crede di essere e ciò che effettivamente accade al suo interno. A sua insaputa ma no, davanti agli occhi di tutte e di tutti.

Le catene e i lucchetti non sono meri strumenti funzionali. Sono indicatori di un dispositivo coercitivo, l’iconografia stessa del contenimento. Utilizzati su un corpo inerte — la statua — creano una rifrazione: l’assenza di vita, di possibilità di movimento, di moto a luogo, sottolinea la violenza della costrizione. La catena rende visibile un gesto che normalmente resta invisibilizzato, quando riguarda esseri umani: la privazione della libertà come meccanismo amministrativo, burocratico, normato. Il cartello incatenato, con la parola deportato, riformatta l’intero apparato del monumento trasformandolo in un punto di interrogazione sulla violenza istituzionale.

La scelta di consegnare le chiavi dei lucchetti ad alcune persone (ma a chi? chi prende questa scelta e chi la riceve?) estende ulteriormente il raggio politico della performance. Ogni chiave consegnata reca con sé la domanda: chi ha il potere di liberare? Il gesto attribuisce una responsabilità individuale, politica, esistenziale: la possibilità materiale e simbolica di sciogliere il vincolo, di togliere le catene, di interrompere l’atto di deportazione messo in scena. Non è un invito generico alla partecipazione, ma un’affermazione precisa: la liberazione non è mai un automatismo, richiede una presa di posizione. Chi riceve la chiave diventa depositaria e depositario di una soglia di potere.

Le chiavi, distribuite a figure che appartengono alla sfera culturale, sociale, politica e attivista, non costituiscono un atto di delega, bensì un atto di esposizione. La persona che riceve la chiave si trova di fronte a una scelta: usarla, oppure non usarla; rivelare di averla ricevuta (e come approntare questa informazione al pubblico), oppure tenere questo fatto per sé; riconoscere la catena come ingiustizia, oppure considerarla parte del paesaggio; intervenire nel reale o rinunciare all’intervento. La chiave è un invito a prendere posizione sulla violenza invisibile che attraversa la città.

Il gesto di liberazione, possibile ma non assicurato, diventa elemento centrale della performance-installazione. Se qualcuna qualcuno deciderà di usare la chiave e rimuovere il cartello – fisicamente oppure simbolicamente, diffondendo la notizia o meno – compirà un atto politico. Se nessuna nessuno lo farà, la catena continuerà a esporre pubblicamente il conflitto tra memoria celebrativa e memoria rifiutata. E’ una performance aperta, che non termina con l’affissione, ma prosegue nella possibilità di un successivo, un dopo, un quindi: un’azione che non appartiene alle e ai performer bensì alla comunità, come forma di coreografia civica potenziale.

Slavorare: sulla tensione tra corpo e spazio, tra visibile e invisibile, tra gesto minimo ed effetto politico; e rendere pratiche le pratiche, sovversive, che prevedono l’attivazione di disallineamenti percettivi, la costruzione di situazioni in cui ciò che è dato per scontato viene incrinato, scucito, decostruito. Il corpo, anche quando non è in scena, è matrice dell’azione: le statue diventano corpi-protesi, i cartelli diventano estensioni della parola, le catene diventano diagrammi della pressione istituzionale.

La ricerca può deve partire anche dalle micro e/o multi coreografie della città: attraversamenti, cadute simboliche, posture imposte, tecniche di sorveglianza, retoriche dell’inclusione che spesso nascondono l’esclusione. In questo senso, la performance sulle statue torinesi è un’esplicitazione di una poetica: trasformare lo spazio pubblico in un campo di prova per nuovi immaginari, rendere visibile ciò che normalmente resta fuori dal discorso.

Le statue scelte non sono casuali: sono figure che incarnano modelli di eroismo, potere, autorità, civiltà. Incatenarle è un atto che sovverte il dispositivo monumentale, non per distruggerlo ma per reindirizzarlo. L’azione interroga la memoria: a chi è concesso il ricordo? Chi viene celebrata celebrato? Chi viene espulsa espulso? Chi può cadere e chi no? La statua deportata diventa un’icona dell’assurdo, un atto di détournement che sposta l’asse della narrazione: ciò che era pensato come eterno diventa fragile; ciò che era pensato come stabile diventa vulnerabile.

Con questa azione, produrre una frizione politica che non si risolve nell’immediatezza. Ogni passante che vede la statua incatenata incontra (e inciampa in) una crepa nel flusso abituale del movimento urbano. Ogni chiave spedita moltiplica la performance in altri spazi: salotti, uffici, studi, tasche, cassetti. La città diventa dis-seminata di micro-centri di responsabilità differita.

La performance, infine, non mira a costruire un atto eroico; al contrario, lavora nella zona grigia tra il gesto e il suo rifiuto, tra la catena e la chiave, tra il monumento e la sua destabilizzazione semantica. Si tratta di un’azione che non chiude, ma apre. Non afferma una verità, ma mette in crisi un dispositivo. Non indica una soluzione, ma costringe a guardare il vuoto tra ciò che celebriamo e ciò che scegliamo di rimuovere.

Muoversi esattamente in questo spazio di in-between politico ed estetico: uno spazio liminale dove la performance è sia atto che innesco, sia scena che conflitto, sia opera che meccanismo di disorientamento. La catena, il cartello e la chiave sono gli strumenti materiali di un processo che riguarda l’immaginario, il linguaggio e la responsabilità collettiva. Il gesto resta lì, in attesa di chi vorrà — o non vorrà — compiere il passo successivo.


Progetto Broom.
Workshop in progress.
Una prima restituzione, in viaggio verso la performance pubblica.

Il Progetto Broom è un dispositivo di ricerca sul corpo e sulle sue capacità di generare spazio, tempo, relazione e attrito, disordine e ordine. Il workshop attiva una piattaforma di indagine collettiva, che si articola attraverso esercizi situati, pratiche di attenzione, processi di dis-identificazione e riscrittura dei codici percettivi e formulativi. L’esperienza non si configura come laboratorio tecnico né come percorso formativo nel senso tradizionale del termine: è luogo di sospensione, interruzione del consueto a sovvertire le cronogalere quotidiane, che apre a modalità non lineari di esistenza nello spazio.

Il corpo non è trattato come strumento per produrre movimento codificato, bensì campo di tensione, superficie malleabile permeabile, strato di memoria incorporata. La pratica posta in essere lavora contro la linearità del gesto appreso, e contro le logiche produttive del corpo-efficiente, proponendo al contrario usi sovversivi della presenza: un corpo che non performa per essere visto / vedersi, ma per rinegoziare la propria relazione con spazio, gravità, tempo e prossimità (al plurale) altrui.

Il Progetto Broom rientra in una rizomagenealogia di pratiche che sovvertono decostruiscono reinventano l’idea di presenza scenica come qualcosa di leggibile e stabile. Durante il workshop la presenza è evento instabile, collasso temporaneo di intensità in forme mutevoli eppure tangibili, dispositivo relazionale che interroga chi lo attraversa.

A coordinare e parimenti costruire il workshop insieme a tutte le persone partecipanti, agisce lo Scollettivo Guerrilla Performing Tramanti, gruppo in-formale aperto di ricerca artistica e sovversiva e politica, che opera nel territorio dai confini piuttosto cangianti dell’azione performativa, della relazione situata e dell’interferenza poetico-politica nei contesti urbani e sociali.

Lo Scollettivo si muove a partire da un metodo non verticale: le pratiche non sono trasmesse come tecniche, bensì come inneschi che ogni partecipante attraversa con piena autonomia sensibile. Si ibridano performance, somatics, tradizioni situazioniste, micro-drammaturgie del quotidiano ma anche no, poetiche del corpo vulnerabile. Le azioni non cercano l’effetto, ma l’attrito: generano una resistenza che apre lo spazio a un immaginario diverso, interrogando costantemente la relazione tra corpo, comunità, attenzione e micro-politica.

Il Progetto Broom opera sulla percezione scoperta concezione del corpo come archivio, luogo in cui si depositano posture, convenzioni, abitudini invisibili. L’obiettivo (aperto ad altre possibilità) non è correggere né potenziare: è sospendere, disarticolare, aprire un vuoto di senso in cui nuove forme di attenzione possano emergere.

La sospensione delle routine motorie — rallentamenti estremi, micro-crolli, posture invertite, camminate devianti, e viceversa accelerazioni, ripristini, ritorni, equilibri — produce effetti di sottrazione: il corpo perde temporaneamente la sua funzione strumentale e si dà come pura esposizione del possibile. Questa esposizione non coincide con l’idea del mettersi in scena, ma con un esercizio di disponibilità all’imprevisto, al suo soppesare, rinegoziare, reinventare.

In Progetto Broom l’atto performativo non è mai finalizzato alla creazione di una forma visivamente riconoscibile ex ante, forse ex post, quando a sua volta il pubblico farà la sua parte nell’osservazione partecipazione attiva. È un processo che disfa il gesto, che abita il momento precedente alla codifica, che lascia emergere ciò che normalmente rimane ai margini della percezione. L’errore non è qualcosa da evitare, ma vero e proprio momento di verità: deviazione che permette di entrare in territori non addomesticati della corporeità.

La sala del workshop (metaforicamente e fisicamente) non è neutralizzata come semplice contenitore; diventa materia attiva che dialoga con i corpi, imponendo oppure suggerendo resistenze, direzioni, interferenze. Ogni parete, ogni vibrazione sonora, ogni volume d’aria funziona come controparte, come elemento di frizione. Il workshop stimola il lavoro sullo spazio come soglia, non come ambiente inerte. Attiva una ridefinizione della distanza, dell’orientamento, della prossimità. Le persone partecipanti possono percepirsi non come figure dentro uno spazio, ma come corpi che producono spazio a partire dal proprio stare.

Questa attenzione alla spazialità genera un rovesciamento della logica performativa classica: non è lo spazio a ospitare la performance, bensì la performance – le persone, i corpi – a emergere come effetto collaterale di un’attenzione radicale al contesto.

Il workshop costruisce una comunità temporanea fondata non sull’identità dei corpi, ma sulla loro capacità di co-abitare, negoziare, decostruire costruire un campo percettivo comune. Non esistono ruoli stabili: il confine tra performer, chi osserva e chi partecipe si dissolve (ma è mai esistito?). Tutte tutti diventano, simultaneamente, superficie e sguardo.

Questo workshop è comunità di attenzione, di micro-alleanze corporee, di risonanze che emergono senza preavviso. La relazione non è programmata, ma prodotta dagli incontri accidentali, dalle traiettorie che si sfiorano, dalle posture che si contaminano. Si genera così un ecosistema temporaneo in cui la vulnerabilità non è percepita come mancanza, ma come materiale operativo. La fragilità diventa linguaggio condiviso: non qualcosa da occultare, ma una condizione produttiva.

Il valore del workshop non risiede nel raggiungimento di un risultato performativo, ma nella trasformazione della percezione delle persone partecipanti. Ogni corpo esce dall’esperienza (poco, molto) disallineato rispetto al proprio quotidiano: con una nuova consapevolezza del gesto, con una micro-alterazione dello sguardo, con la sensazione che anche la minima variazione possa produrre effetti politici ed estetici.

E si indaga la natura di questo disallineamento: posture incomplete, appoggi sospesi, densità del corpo a contatto con il pavimento, distanze che si contraggono, gesti che non appartengono a nessun vocabolario riconoscibile. E da cui, da tutto il cui, emerge una narrazione condivisa, oppure narrazioni parallele, misurabili non in termini di adesione a obiettivi predefiniti, ma nella capacità di produrre tempo qualitativo, tempo sospeso, tempo condiviso. Un tempo in cui la percezione si riallinea, il gesto si apre, la presenza si espone a possibilità non addomesticate.

Clicca qui sotto per tutte le info sul workshop che si è svolto il 30 novembre 2025,.
Per le prossime date: segui questo sito e i nostri sprofili social.
Oppure contattaci direttamente, saremo felici di fare quattro chiacchiere con te.

Progetto Broom.

Il Progetto Broom si configura come un laboratorio di micro-politica del gesto: un’indagine che non pretende di generare risposte, ma di aprire pratiche, porre domande, mettere in scacco la grammatica abituale dei corpi. In questo senso, il workshop non è un evento unico ma un nodo in un processo più ampio portato avanti dal nostro vostro Scollettivo Guerrilla Performing Tramanti.

Il corpo, sottratto alla narrazione dominante dell’efficienza e della leggibilità, ritrova la capacità di produrre deviazioni, interferenze, interruzioni. Queste deviazioni sono motore del progetto: atti sovversivi che, pur nella loro apparente marginalità, generano una trasformazione percepibile nel tempo. E tutto il resto? Tutto il resto — il senso, l’esperienza, la memoria — avviene nei corpi.


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