Le istruzioni

Caro Alberto,

è tua moglie Lina che ti scrive questa lettera. Chi sono non te lo ricordi, e forse quando leggerai queste righe l’alzheimer ti avrà portato via anche il significato della parola moglie. Avevamo un modo molto diverso di ironizzare sulle cose, ma ti scrivo lo stesso che mi viene da sorridere, a pensare a questa parola. Moglie. Quando ci siamo sposati avevi una certa definizione di quello che ero per te, da tenere ben accesa davanti nei momenti delle decisioni difficili; nel corso degli anni è cambiata, come è mutato il significato di marito per me. Ne abbiamo parlato chiaramente, questo è stato un bene, anzi a dirla tutta ti riconosco il merito di aver avuto il coraggio di affrontare quel discorso. Io forse non volevo vedere. Dov’è l’ironia, mi chiederai. Ecco, vedi? Non la cogli. Ma non importa. Abbiamo pianto e ci siamo arrabbiati ma abbiamo anche riso tanto, insieme, e questa è stata la nostra vita e va bene così, non ne vorrei un’altra.

 

 

Se da giovani avessimo saputo che alla fine della nostra vita avremmo riscoperto il significato della parola amore, forse avremmo sofferto di meno in quel periodo in cui le cose non andavano come avremmo voluto. Ma è inutile, ora, stare a scriverne ancora, perché solo io ricordo e tu no, e anche se tra le mille cose che ho letto della tua malattia ci sono anche teorie che dicono che da qualche parte, in quella tua testa, il passato è ancora intatto, nella realtà dei fatti tu non riconosci più nessuno e non ricordi più nulla; ed è questo, paradossalmente, che mi permette di affrontare questo terribile dolore: tu non te ne rendi conto, almeno non del tutto. Ogni giorno ti isoli un po’ di più dal mondo circostante, le tue arrabbiature si fanno più incomprensibili e violente, poi entri in depressione e piangi e non c’è modo che io sappia perché, tu non me lo sai dire. “E’ tra le patologie con il più grave impatto sociale nel mondo”, ci ha spiegato il medico, quel giorno che eravamo nel suo studio e aspettavamo che commentasse i risultati delle analisi; ed io credevo che tu mi avresti stretto la mano per la paura, quando hai saputo, e invece no, non so come tu abbia fatto, sei rimasto saldo, in quel momento. “Non si rende ancora conto, non capisce”, mi avrebbero poi detto i parenti. Ma io ho sempre saputo che il tuo era coraggio, coraggio. Ora mi consola un poco sapere che ti è risparmiata la consapevolezza di quale sia il vero dolore che riguarda la tua condizione.

 

 

Ricordo la notte che passammo dopo il verdetto del medico, e di come cullavamo insieme minuto dopo minuto, ora dopo ora, la speranza che forse, con le giuste cure, avremmo potuto rallentare il decorso della malattia per strappare del tempo al momento in cui tu saresti sparito, pur restando. E invece niente, nulla è servito, e ad un certo punto sei stato tu che hai detto basta, basta cure, non si poteva vivere il tempo restante inseguendo qualcosa che non esisteva, che non poteva accadere. “Meglio restare sul presente”, mi ricordo ancora le tue esatte parole. Così filosofiche, per un cinico come te. Altra prova del tuo coraggio, mentre gli amici invece dicevano: “è impazzito, ma che fa, non prende più le medicine?” oppure, più cattivi o forse semplicemente più spaventati, “si è arreso, è comprensibile, poverino”. Tu ed io non potevamo immaginare che cosa avrebbe voluto dire, ma ora io lo so, e tu no, hai sempre solo potuto immaginare, prima; ma quando è accaduto davvero, ecco tu non c’eri più, pur essendo ancora lì fisicamente. Ma c’eri, quando hai deciso di vivere con attenzione ogni istante che rimaneva. Questo l’ho visto io, e pure tu, eri lì, ed eri… bellissimo. Non saprei come dirlo in altro modo. Ed è per questo, anche per questo, che ti scrivo questa mia lettera, che è una lettera di istruzioni. Sì, caro mio, questa è una lettera di istruzioni, quelle che non leggevi mai ogni volta che abbiamo comprato un elettrodomestico, perché eri presuntuoso e volevi fare di testa tua.

 

 

Sì, eri testardo e presuntuoso (e lo sei ancora, eccome se lo sei), e quando gli altri mi chiedevano, più o meno velatamente, come facessi a sopportarti, io non rispondevo mai, sorridevo e basta, alzando le spalle. Preferivo lasciare il mistero, che era un po’… il mistero dell’amore. Pensavano che io fossi troppo debole per reagire, magari per andarmene via da te nei momenti peggiori che abbiamo vissuto. Ma la verità è che io sapevo che quei tuoi atteggiamenti nascondevano timidezza e insicurezza, e che da perfetto cretino quale eri pensavi che fosse necessario ostentare forza perché, per il tipo di educazione che hai ricevuto, non era ammissibile che un uomo si sentisse, alle volte, debole. So benissimo che in gioventù hai fatto degli sforzi per cambiare questo lato fastidioso del tuo carattere, eppure alcune cose proprio non ti riuscivano. Avrei voglia di scrivertele tutte, ora che finalmente non puoi controbattere, ma sai una cosa? Non me ne importa più nulla, di avere ragione oppure torto, alla fin fine sono giochi degli esseri umani per sentirsi bene e a posto con se stessi, quando in realtà dovrebbero stringersi e darsi reciproco riparo dalle tempeste che la vita distribuisce. Alcune siamo riusciti ad evitarle, altre sono arrivate a prescindere dai nostri sforzi. Dov’era finita la tua insicurezza quando hai affrontato il decorso della tua malattia così lucidamente? Non lo so. Alle volte ho pensato che tu ti sia allenato tutta la vita per affrontare, un giorno, una cosa del genere. Ma so che è solo un modo di trovare un lieto fine, come nelle favole.

 

 

Quindi, ti scrivevo: questo è un piccolo manuale di istruzioni. Ti spiego: tra i tanti difetti che avevi, c’era quello che non chiedevi mai informazioni stradali. Mai. Nemmeno quando era palese che ti eri perso. E come se non bastasse, ti dava fastidio che lo facessi io al tuo posto. All’inizio detestavo questa cosa, poi per caso ho letto un libro che spiegava che uomini e donne “vedono” in modo diverso. Ora, non so quanto sia vera questa teoria, ma per farla breve le donne non riescono a leggere le cartine perché non focalizzano il punto in cui si trovano, non riescono a contestualizzarlo nello spazio con la stessa facilità degli uomini. Pare che gli uomini siano predisposti a concentrare l’attenzione su un dettaglio, e questo deriva dalla necessità primitiva di cacciare, mentre le donne hanno una vista periferica più larga, perché dovevano badare a più figli contemporaneamente. Questo spiegherebbe perché tu non trovavi mai le cose, mentre io invece sì. Guardavi in un punto solo, io vedevo tutto il contesto. Oppure, tutte queste sono stupidaggini e semplicemente avevi un pessimo carattere, che si rifletteva anche in questo: ledeva il tuo orgoglio dover ammettere di non saper fare qualcosa, e dover chiedere aiuto a qualcuno. Comunque, tu hai perso la memoria, ma questo vizio di non chiedere ti è rimasto, anzi, è peggiorato! E così non è la prima volta che ti perdi a pochi isolati da casa, quando esci perché vuoi andare al parco e poi non sai tornare indietro.

 

 

Il medico, quando ha saputo che ti lasciavo uscire di casa, è andato su tutte le furie, e mi ha spiegato i rischi che questa cosa comporta. Non te li elenco, perché tanto non capiresti, e perché in fondo non fa nessuna differenza: fare attenzione a tante cose, sì, forse ci ha salvati da alcune di esse, ma guarda questa che ci è capitata adesso. E poi, il prezzo da pagare quale sarebbe? Tenerti chiuso in casa, farti uscire solo accompagnato da una badante, con la quale litigheresti e basta (perché ci ho provato, a metterti accanto qualcuno che si prendesse cura di te per quelle cose che io non riesco più a fare, e più di una volta, e tu ci hai sempre, sempre litigato).

 

 

Così, ho pensato di attaccare in giro per la città delle dita di gesso. Non fare la faccia stranita che ormai, dopo tanti anni, conosco a memoria, e leggi bene. Sembra un’idea stupida, ma funzionerà: non hai mai approvato il mio modo di risolvere certi problemi, sempre per la questione del tuo orgoglio, ma questa volta prova a fare come dico io. E poi, so che mi adoravi, proprio per queste mie trovate strambe. Sì, ho attaccato delle dita di gesso per la strada, sono i calchi del mio dito indice. Così non devi chiedere a nessuno, il tuo orgoglio è salvo, e tu seguendo la direzione verso la quale puntano puoi tornare a casa dopo il tuo giro al parco. Tra le tante cose belle che hai fatto per me, c’è stata quella di credere sempre nella mia vena artistica. Anche quando ero giù di morale, anche quando le gallerie rifiutavano le mie sculture, anche quando ero assordata dal fatto che il mondo intero mi diceva che non serviva a niente, tu mi hai sempre sostenuta e incoraggiata. Testardo come un mulo. Te ne sarò per sempre grata, ed ecco, l’arte che tu hai salvato, te la restituisco, è tutta per te, insieme al mio amore.

Tua moglie, Lina

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