Non può ancora decidere per sé, perché ha dieci anni, e quindi se i suoi genitori scelgono di trascorrere il fine settimana al mare, lui va al mare con loro. Durante il viaggio in macchina si addormenta, e nemmeno questa è una sua decisione, avrebbe preferito guardare fuori dal finestrino le altre auto e la campagna e le montagne e le gallerie, ma sono partiti al mattino molto presto, l’adenosina in eccesso prodotta dal suo cervello si aggancia ai recettori A1, accompagnata dal brusio sordo e costante degli pneumatici sull’asfalto, e lui scivola nel sonno.
Quando si sveglia stanno uscendo dal casello autostradale e c’è il mare, lì in basso dietro ad ogni tornante che percorrono, prima a destra e poi a sinistra, il mare grande e blu e scintillante al sole, e tetti e un campanile e un molo con le barche ormeggiate. Non è la prima volta che vede il mare e una città sulla costa, ma osserva bene, e quando dopo l’ultima curva finalmente arrivano confronta le strade con quelle della sua città, e le facciate delle case soprattutto, i colori e quanti piani hanno, e come sono fatti i balconi, e le insegne dei negozi che dove abita lui non ci sono, e altre invece sì, le riconosce.
Quando scendono dalla macchina la prima cosa è l’aria di mare nelle narici, la sente distintamente e la ricorda, la riconosce subito, e il calore del sole e il rumore delle onde poco distante dal parcheggio. Iniziano a percorrere il lungomare, e lui tira fuori dalla tasca il cellulare, per scattare fotografie, gli piace farlo. Quella sì, è una sua decisione: il suo spazio di libertà, che cosa inquadrare, quando scattare. Non è ancora stagione, e le spiagge sono deserte. Cerca di far sì che sullo schermo sia perfettamente orizzontale la linea del confine tra cielo e mare, confine che mai immaginerebbe essere a soli cinque chilometri di distanza, calcolando il suo punto di vista ad altezza bambino e la curvatura terrestre.
E’ una sua decisione, scattare fotografie, ma è anche il desiderio di mandarle ai suoi nonni, a cui è molto legato; molto anziani, non si muovono di casa. Gliele invia un po’ alla volta, loro non gli rispondono perché non sanno usare bene il cellulare, ha insegnato loro ad aprire i messaggi e a guardare le foto, ma rispondere è già più complicato, forse riuscirà a spiegargli come si fa la prossima volta che andrà a pranzo da loro; di certo commenteranno i suoi scatti, “fai belle foto!” gli dirà come sempre suo nonno, sistemandosi gli occhiali sul naso per vedere meglio lo schermo troppo piccolo del cellulare, e lui gusterà l’ambiguità di quella frase, se sia una lode oppure un invito.
I suoi genitori deviano verso il centro del paese, dopo aver guardato l’ora ed essersi scambiati qualche parola che a lui è sfuggita, si lasciano il mare alle spalle e si inoltrano per alcuni stretti carrugi, e lui avrebbe preferito proseguire sul lungomare, è obbligato a seguirli, però dimentica in fretta quella decisione non sua, altre cose attirano la sua attenzione. Fa fresco, ora, tra le case alte e il cielo che si intravede lassù sopra ai lenzuoli stesi da finestra a finestra, e c’è odore di salsedine e umido, e i suoni arrivano in modo diverso alle sue orecchie, rimbalzano sulle pareti e si appoggiano sui suoi timpani da una distanza più ravvicinata, con un angolo diverso.
Ruota la testa di qua e di là, osserva curioso le vetrine dei negozi e dentro, cose che di solito non vede in vendita dove abita: prodotti tipici, soprammobili, quadri, prova a fare qualche altra fotografia in mezzo alla folla che si incrocia e si schiva e rallenta e accelera nelle stradine strette; cerca di indovinare chi abita qui e chi invece, come lui, è in vacanza; un cane tira il guinzaglio, puntando un grosso gatto nero su un davanzale, immobile come una statua, e il padrone lo chiama e prosegue nel suo percorso; quella era una scena da fotografare, pensa, ma è accaduta troppo velocemente, non ha fatto in tempo ad alzare il cellulare e scattare. Ha perso l’attimo. Si ripromette di fare più attenzione, stringe il cellulare, controlla che la telecamera sia già attiva e pronta. Girano un angolo e sbucano in una piazza, e ci sono una ventina di banchi, di frutta e poco più in là di pesce, e lui osserva bene quelli che comprano e quelli che vendono, prova ad immaginare che cosa si dicano, nel vociare della calca, e vede i soldi che passano di mano e le buste della spesa.
E’ un periodo che si chiede spesso che cosa farà da grande, tutto è iniziato con un tema che gli hanno assegnato a scuola, e poi la cosa è proseguita a casa, parlando con i suoi genitori, e si è allargata ancora, quando ha chiesto che cosa facevano di lavoro i nonni, quando non erano ancora nonni. Oggi, per la prima volta, muove un passo nel futuro, tocca come un cieco i contorni di un’ipotesi, cercando di capire la forma di quell’aspettativa, gli viene da pensare che forse un giorno anche lui porterà la sua famiglia in gita al mare, cioè sarà una sua scelta la meta del fine settimana, e chissà a quale lavoro farà ritorno, il lunedì; e quel lavoro gli procurerà dei soldi che terrà nel portafoglio, nella tasca posteriore destra dei pantaloni, come suo padre, e li userà per comprare qualcosa a quei banchi.
Alza il cellulare, e scatta una fotografia.
In quella fotografia, a lato dei banchi del mercato, seduto su una panchina a ridosso di un palazzo dai muri gialli, c’è un vecchio, e quel vecchio è lui, che guarda se stesso da bambino, in vacanza al mare con i suoi genitori; e mai avrebbe potuto immaginare che cosa sarebbe accaduto: in quel posto ci sarebbe tornato, dieci anni dopo, con la sua prima fidanzata; e poi, dieci anni dopo ancora, con quella che sarebbe diventata sua moglie; e altri dieci anni dopo, sarebbe stato di nuovo lì, vedovo, con un figlio in braccio; altri dieci anni, e sarebbe tornato lì per lavoro; e altri dieci anni ancora, e avrebbe deciso di trasferirsi lì, affittando un piccolo alloggio con la sua modesta pensione; e poi altri dieci anni, e si sarebbe seduto, come ogni giorno, su quella panchina. Senza sentire più l’odore di umido e salsedine, a cui ormai si è abituato; avendo visto infiniti cani tirare verso infiniti gatti neri immobili, senza avvertire più la necessità di fermare quell’istante in una fotografia; andando a comprare una volta alla settimana a quei banchi, e le sue conversazioni con i fruttivendoli e i pescivendoli meno interessanti di quelle che ipotizzava da bambino; e mai avrebbe potuto immaginare di vedersi passare di lì con i suoi genitori.
Vedendosi scattare da bambino quella fotografia alla piazza del mercato e a se stesso, ricorda bene il sentimento che lo animava: la fame di vedere, un concetto grezzo che avrebbe poi cesellato nella mente, con il tempo, come desiderio di bellezza; ma la bellezza no, non è come quel quadro appeso alla parete della trattoria dove si concede di pranzare una volta alla settimana, quel quadro che gli fa compagnia, decorativo. Eppure, con le sue decisioni ha inseguito la bellezza tutta la vita, cercando di correggere il tiro: la scelta dell’università, distribuendo curricula per trovare il lavoro che voleva, arginando con sacchi di sabbia di coraggio e forza d’animo, che nemmeno lui sapeva dove aveva trovato, la mareggiata della morte della moglie; la bellezza non era stata negli sforzi piccoli e grandi di una vita, nelle cose pianificate per sentirsi a posto con se stesso.
Ci si era avvicinato, alla bellezza, certo, ci aveva provato. Il bambino che è stato scatta una fotografia verso di lui, abbassa il cellulare, affretta il passo per raggiungere i suoi genitori che nel frattempo si sono allontanati un poco. Perde di vista nella folla tutti e tre: lui da bambino, e i suoi genitori. Quel giorno, su quella panchina, la bellezza bussa alla sua porta, e lui la lascia entrare e le permette di fare qualcosa che non sembra coincidere con il suo interesse personale. Sorride, quel vecchio sulla panchina, pensando che la bellezza ne sa più di lui.