da “Per non morire d’arte”, Ugo Nespolo (2021).
“In verità sono proprio vizi ed egoismo a popolare il mondo dell’arte, quel paradiso presunto tutto creatività, trionfo di valori, benessere morale e fisico diffuso. Un cammino immaginato libero e fiducioso che pian piano rivela il suo lato oscuro, rischioso, truccato, fino a scoprire avvolti di malinconia che di arte si può persino morire.”

“D’arte si può morire facilmente. Si comincia pian piano a patire la propria solitudine nello scoprire la vacuità dei gesti pensati eroici e radicali, schiacciati dall’evidenza dell’illusione d’aver per tanto tempo vagheggiato d’esser parte di un magico universo make believe, l’illusione di credersi eroi di un mondo esclusivo ricco di senso capace di farci sentire lontani e noncuranti dei traffici e delle bassezze del quotidiano. Presto si scopre – a volerlo fare – d’essere immersi in un brodo creativo svuotato di certezze e convinzioni, orfani di pensieri guida, in anni in cui pare per sempre svaporata la favolosa e comoda era dell’everything goes, quelle stagioni allegramente sostanziate dal qualunquismo postmoderno, gli anni obliqui del tutto è arte e tutti sono artisti.”

“Si può davvero morire per la malinconia di ritrovarsi nudi e orfani, al freddo e al gelo di una slavata waste land, attoniti a contemplare la propria confusa e faticosa avventura solitaria. Scomparsa di teorie e teorici, quelli capaci almeno di rubacchiare ancora dai polverosi armadi dell’estetica indicazioni su cui erigere progetti di una qualche sostanza, lanciare manifesti che non siano soltanto surrogati, parodie teoriche di estinte avanguardie, quelle dei tempi della preminenza di cultura, pensiero e azione. Proprio le teorie erano gesti radicali per definizione, atteggiamenti critici, irriverenti, persino contro, tabule rase spesso dai toni utopici ma generose e capaci di rinsanguare i debilitati e confusi gesti del fare arte.”

“Si muore perché si sa di vivere il tempo delle superchiacchiere, perché si è sommersi da cataste rovinose di oggetti eterogenei il cui volume e peso sono inversamente proporzionali al loro sapere e potere culturale. […] Si muore nel sentire l’amico Jean Baudrillard a ricordarci di stare vivendo il grado Xerox dell’arte, il suo vanishing point, la sua totale simulazione, un’arte che sembra non avere più poste in gioco. Si può anche morire per la vacuità di un mestiere che ha abolito il mestiere, quel craft, quella capacità manuale e concettuale, morire anche per la scomparsa di una una qualsiasi bellezza intorno, schiavi del dogma dell’indifferenza estetica dove la bellezza – ricorda Maurizio Ferraris – è un fossile fuori luogo.”

“Mette angoscia intanto l’universo asfittico di un concettualismo d’accatto, privo di qualsiasi profondità e appeal, triste e univoco tentativo di feticizzare gli oggetti come opere e del decorativismo di un’arte che non ha più autonomia. Si muore senza scampo nel trovarsi condannati alla dannazione del prezzo. Fa davvero male l’impossibilità di spezzare i vincoli dittatoriali dell’Artworld quando ci chiede, con tutto l’autoritarismo di cui dispone, di apprezzare quello che qualcuno prezza senza ritegno. Ti può trafiggere l’assioma del ciò che costa vale, ti ferisce sentir dichiarare da Brett Gorvy, vicepresidente della sezione Arte Contemporanea di Christie’s: è solo business, non storia dell’arte, o Thomas Hoving, ex direttore del Metropolitan Museum of Art di New York: l’arte è sexy, l’arte è soldi sexy arrampicata sociale fantastica.”

“Si può morire anche al sapere che l’arte ai nostri giorni altro non è che una commodity, proprio come cacao, soia, nichel, gas naturale, maiali e tutto il resto. L’artista, per questo e per molti altri motivi, si rintana nell’angolo buio e contempla la propria sparizione dolorosa. […] Salvarsi nel mollare la partita o vivere coscientemente la propria solitudine, provare a vivificare in luce di ragione il profondo senso di melancolia e di perdita di certezze che pervade il più che vago mondo della creatività tutta. Pensare intanto e poi scrivere, raccontare per capirsi e capire è una sospensione necessaria per cercare una luce sia pure flebile e individuale, per fingere di credere di potersi riparare in un luogo sicuro.”

Un ringraziamento particolare a: Bevilacqua Gustavino, Cronomaestro, Silvia, Allegra, Diorama, Fata Turchina, Ardra, Barbarakay, Sara Atti Effimeri, i brasa delle Wasteland, Maddy, Hannes, Michele, Ludwig, Johanna, Miette, Puskerino, Rosetta.
condivido in pieno! poi mi piace quella tela portata in giro che ha raccolto i segni della terra,o vita? buona serata
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Ciao Nadia! Grazie per il tuo commento. Come già per altri miei lavori, il “terreno” da gioco per l’osservatore è quello: i segni lasciati sulla tela, se sia una diretta conseguenza dell’azione o un effetto secondario, chi sia davvero “l’autore” dell’opera, l’importanza del percorso accanto a quello della meta, eccetera. “Raccogliere i segni” è un buono spunto, ci rifletto. Intanto, ti ringrazio. Buona giornata.
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Buona anche a te!
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