Sinonimi.
Una chiave di lettura.
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Basta un corpo; subito non è sufficiente.
Che cosa accade nelle mie performance.
Descrivere con le parole uno scopo, recondito oppure assente, quando proprio a quel corpo le parole non bastano per descrivere. Si tenta la circumnavigazione con i sinonimi.
Soltanto un corpo, ma ha profondità insondabili o che vorremmo tali, perché insopportabile il pensiero che possa essere matematicamente il totale della somma delle parti.
“È con la testa da un’altra parte.”
oppure
“Non si parla male degli assenti.”
Solamente un corpo, sebbene ritaglio incerto in una porzione di spazio, se fortunati vuota, ma sicuramente non di fantasmi, di relazioni con le cose, scolpite nella memoria muscolare.
“Ha dita lunghe da pianista.”
oppure
“Ha il passo della guida alpina.”
Solo un corpo, invertendo l’ordine degli elementi risucchiati in un altro pozzo gravitazionale: un corpo solo. Oltre con le parole non si può andare, allora.
“Mi manchi.”
oppure
“Ti penso.”
Appena un corpo, ribollente la pelle un confine indossato come abito a salvaguardia dell’io quando forse tutto il dentro è fuori, tutto il fuori è dentro. Un calzino rivoltato. Ovviamente spaiato.
Che cosa accade nelle mie performance.
Prendo un corpo, il mio, lo abito lo abbandono, nello spazio nel tempo, con le cose.
Prendo un corpo, il mio: per abitudine, usucapione, lo conosco quel tanto che basta per riempirlo di me, di quello che voglio sapere di essere, educatamente riottosamente inserito in un contesto: semafori, portare il cibo alla bocca con la forchetta, sapere a memoria il proprio codice fiscale, farlo funzionare efficacemente in relazione ad altri corpi.
“Lasciami la mano.”
oppure
“Hai degli occhi bellissimi.”
Lo abito lo abbandono: lasciarlo da solo e finalmente precipitare dentro l’inefficace dicotomia di me cosciente e di me incosciente, delle funzioni biologiche che lavorano sommessamente instancabilmente nell’altra stanza, della chimica che non si accetta come commensale alla tavola imbandita della volontà, salvo quando bisogna darle la colpa per una manchevolezza.
“Scusami, oggi sono stanco.”
oppure
“Non è colpa mia, oggi ho mal di pancia.”
Nello spazio nel tempo: cacciati dalla perfezione sferica e circoscritta del ventre materno, cadiamo in un universo senza limiti troppo vasto per essere esplorato tutto nella quantità di fotogrammi che il tempo ci concede. Ci costruiamo giustificazioni ad occuparne una parte.
Affermazioni sempre menzognere:
“Non sono nato.”
oppure
“Sono morto.”
Con le cose: così silenziose e sicure di sé, le costruiamo con lo sguardo prima e con le mani poi, ed immediatamente senza mediazione siamo costruiti dalle cose, il martello fa la piega del polso che lo impugna e la prospettiva nel cervello di piantare un chiodo.
Che cosa accade nelle mie performance.
Prendo un corpo, il mio, lo abito lo abbandono nello spazio nel tempo, circoscritto dall’ottica di una videocamera, nella sua relazione con le cose.
Circoscritto dall’ottica di una videocamera: bisogna venire incontro all’insaziabile fame di narrazione della mente. Che ci sia un inizio, una fine, una cornice dentro la quale avviene qualcosa, un campo da gioco. Per avvertire queste regole, per disattenderle.
Nella sua relazione con le cose: l’esistenza economica è la sequenza di passi un piede dopo l’altro sui gradini di una scala per arrivare da qualche parte. L’esistenza creativa è la mano che gira attorno al gradino l’afferra sostiene il peso, percependo l’estraneo e l’imbarazzo.
L’estraneo e l’imbarazzo.
L’abitudine è la seduzione massima, la somma efficacia presuntuosa, l’oblio estremo delle possibilità di un corpo. Per percepirsi intero, è necessario trovarsi estraneo, mettersi in difficoltà, doversi rinegoziare, trovare soluzioni diverse, sperimentare l’inefficacia, vedersi nuovi di nuovo.
La disinvoltura è la mancanza di attrito sulla superficie delle cose, non ne percepisce la consistenza, respira preconcetti pregiudizi riassunti semplificazioni. Per percepirsi corpi, è necessario provare l’imbarazzo della gravità, la rigidità di un’articolazione, l’estensione o il limite.
Che cosa accade nelle mie performance.
Prendo un corpo, il mio, lo abito lo abbandono nello spazio nel tempo, circoscritto dall’ottica di una videocamera, nella sua relazione con le cose, così che diventi una riflessione – rifletta, come uno specchio – le improvvise improvvide reazioni degli osservatori, porti a galla metta in evidenza le decifrazioni delle pose, apprese o culturali, inconsce o sociali. Politiche.
Osservare nello sguardo altrui le decifrazioni del proprio corpo, mentre è attraversato dal linguaggio, è parlato dalla sua biologia, cavalcato dalla sua cultura. Fare quindi l’inventario del proprio bagaglio a mano, svuotarlo, esaminare che cosa si trasporta inconsapevoli.
Ogni posa ha la sua sovrascrittura culturale e individuale. Prendere quindi coscienza che non si può stare, mai in nessun modo, senza comunicare consciamente inconsciamente qualcosa. Comprendere il linguaggio delle pose, rivalutarle, rivoltarle, sabotarle.
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