Sfacebook – ovvero la nuova Esposizione Universale

“Dipingo per non parlare.
Le parole mi feriscono. Io ferisco con le parole.
Che vi si tempesti di parole,
che vi si lasci senza parole,
è sempre per esercitare un potere.”
– Colette Deblé, citata da Jacques Derrida in “Pensare al non vedere”, Jaca Book

Ieri ho completato la disattivazione del mio account Facebook e di quello Instagram. Oggi [era il 21 agosto] è stato il primo giorno di astinenza da social. Battito e respiro regolari. Ho avuto modo di notare, durante la giornata, quante volte avrei preso in mano il cellulare per dare un’occhiata alle notifiche oppure al feed delle news. Un gesto innescato dall’abitudine, che si è scritto nella memoria muscolare, ma: ah già, non ho più Facebook / Instagram; e poso il cellulare per fare altro.

Cerco di capire, al di là dell’azione automatica, quali siano state le motivazioni, quali i bisogni – consci ed inconsci – che cercavo di soddisfare; ora che non posso più farlo, dovrebbero risaltare, riemergere dall’ombra degli automatismi inconsapevoli. Per ora, le scintille che innescavano il pollice sull’icona di FB mi sembrano tre: sapere che cosa accade nel mondo; vedere che cosa fanno gli altri; e infine postare qualcosa che ho visto, poi fotografato, e che vorrei condividere con gli altri.

Sapere che cosa accade nel mondo. Terribile – provo davvero vergogna. Devo tornare a rivolgermi con più assiduità a chi si occupa di veicolare l’informazione, e lo fa a livello professionale. Ansa, siti di informazione libera: riprendere in mano la lista che avevo e che ho consultato troppo poco. Davvero è possibile che FB si sia sostituito a questi siti, nella mia gestione del tempo e della ricerca di informazioni? E’ riuscito a scalzare tutte le altre fonti, e mi ha portato ad aspettare di trovare qualche link tra una foto e l’altra dei miei contatti, link che rimanda ad articoli di altri siti che non saprei quante volte ho aperto per scoprire di che cosa parlano davvero. Sul serio sono arrivato al punto di accontentarmi, per la maggior parte delle volte, che sia stato Facebook a darmi informazioni su quello che accade fuori?

Ripenso a quante notizie di cronaca, oppure di politica interna ed estera, a quanti fatti importanti mi sono arrivati da FB prima che da altri siti. E come queste notizie fossero già filtrate almeno due volte: sopra ogni link, l’utente che lo ha postato appone la sua opinione in merito. E poi i commenti degli amici, a seguire. Ammesso e non concesso che il mio cervello sia abbastanza allenato a discernere, comunque si tratta di informazioni a più strati che devo processare, prima ancora di arrivare all’articolo vero e proprio e decodificarlo, contestualizzarlo. Non è un processo automatico, naturale, va mantenuto ed esercitato, e costa fatica; sono certo che, per quanto si sia convinti di aver letto davvero, qualcosa nel processo di apprendimento ed elaborazione dell’informazione sfugga sempre. Un’altra constatazione è che alcuni fatti importanti sono per me legati (abbinati, nella memoria) alle persone che li hanno postati, cioè riferiti, su Facebook. E’ stato Tizio, oppure Caio, che mi ha detto che è successa quella cosa.

Vedere che cosa fanno gli altri. Quante volte sono andato a vedere il profilo di un mio contatto, e quante invece sono rimasto a scorrere il feed delle news, a caso? Quante volte ho pensato ma dai, sempre le stesse cose. Eppure, quello che compare è anche correlato a quello che ho visitato / cliccato / commentato precedentemente, la cronologia delle mie ricerche, i contatti dei miei contatti, e via dicendo. E’ un effetto particolare dei social: la sfera di contatti di cui ci circondiamo sono a noi affini, li abbiamo scelti perché confermano e rafforzano le nostre opinioni, i nostri gusti, in un gioco di specchi che mi dice quello che voglio sentirmi dire, e non si apre a realtà completamente diverse dalla mia. Sì, alle volte seguiamo i nostri avversari: fungono da parafulmini, da esempi di un pensiero avverso, ma gestibile, pur sempre all’interno di un meccanismo di identificazione / contrapposizione; sono catfights, schermaglie da tastiera, anche queste veicolano ed esprimono la necessità di lottare, di litigare, di sentirsi da un lato contrapposto ad un altro; ma tutto questo non ha niente a che vedere con la novità, la scoperta, l’addentrarsi per davvero in un territorio nuovo, senza sapere prima se questo sia ostile o meno.

Alcuni esempi di questa teoria della sfera confermante: non vedo i post di un utente che vive in Siria, non leggo quello che scrive chi appartiene ad un’ala politica completamente diversa dalla mia, non ho contatti in Sudamerica, nessuno di quelli che posso vedere posta foto dell’ultimo bombardamento in medio oriente. Inoltre, la frase corretta (la motivazione, ma più sincera) sarebbe: “vedere che cosa gli altri vogliono che io veda”. Come si presentano, non come sono. Mi chiedo se parte delle critiche che ho ricevuto (quelle da parte dei “piccati”) non sia mossa da qualcosa di simile a: non guardi più che cosa faccio, quindi non ti interessa quello che ti dò da vedere, quindi non ti interesso io. Ripasso mentalmente la lista di amici con cui avevo contatti su FB – quelli di cui mi ricordo ora, certo non tutti i 5.000 contatti, della maggior parte dei quali non so nulla – e mi rendo conto che nel 90% dei casi non sono andato, almeno da un anno a questa parte, sul loro profilo personale, attendendo invece che fosse FB a farmi vedere qualcuna delle loro foto oppure dei loro post; e in alcuni casi non sono MAI andato nemmeno una volta sul loro profilo. Che cosa si fa, in questi casi? Si chiede scusa? Scusatemi, allora. Credevo che FB fosse equo e desse a tutti voi le stesse possibilità di apparire sul feed delle news. E invece no, non è così.

E’ una specie di gioco strano, su una premessa non sempre veritiera. Viceversa, alle volte mi è capitato di parlare con alcuni amici, chiedere loro se avevano visto quello che ho postato, e: , mi dicono, abbiamo visto. Eppure, io non ho avuto sentore di questo, la prima domanda che mi si è formata nel cervello è stata: perché allora non hai messo il tuo like, perché hai osservato e basta? e sono certo che questa domanda rafforzi la convinzione dell’essere visti sempre, da tutti. Anche quando non è affatto così; allo stesso tempo, le reazioni degli altri a quello che scriviamo non danno il polso reale di quanti hanno visto quello che abbiamo postato, scritto, fotografato.

E infine la motivazione del postare qualcosa che ho visto, fotografato, e che vorrei condividere con gli altri. Forse è la più delicata, e la più personale. A prescindere dagli algoritmi di visibilità, entra in gioco il piacere – chimico, neurologico, cerebrale – che si prova a vedere qualcosa di bello, di interessante, a fotografarlo e a metterlo in condivisione con altri a cui teniamo. Probabilmente questo è l’aspetto che mi manca di più, già da ora. La sensazione di poter contribuire, in qualche modo, a rendere… no, non più bello il mondo, ma a metterne in luce alcuni suoi aspetti. Il bisogno di comunicare, che sicuramente nasce dalla solitudine, e dal desiderio che anche altri vedano quello che sto vedendo io, perché – qui si va sul poetico, ma non credo ci sia altro modo di dirlo – ci sono cose belle a tal punto che non si possono sopportare (portare) da soli, sarebbe un peccato, le si vuole condividere, altrimenti andrebbero perse. Belle non è la parola corretta. Belle nel senso di importanti. Ma nemmeno. Forse che toccano, che rimandano a qualcosa.

A questa motivazione per l’uso dei social, se voglio essere sincero (spietato), ci sono alcune obiezioni. La prima: si tratta di gocce in un oceano di informazioni. La seconda: non sempre quello che io ritengo così importante, la “straziante bellezza del creato” (parafrasando Pasolini nel suo Le Nuvole), lo è anche per gli altri. E che la stessa immagine al giorno d’oggi viene vista in mille modi diversi, viene sovrascritta, non veicola significati come io penso: per un naturale gioco di punti di vista, oppure per diseducazione alla lettura di un’immagine. E perché in fondo anche quella della condivisione è forse un’illusione, solo una piccola percentuale dei miei contatti intuirà che si tratta di un tentativo di comunicare l’incomunicabile, il contenuto e la forma in realtà rimandano ad un altro significato più elevato e così grande e ben visibile che nessuno lo vede: siamo tutti profondamente soli, e facciamo tentativi di raggiungere gli altri, bussiamo contro il muro della stanza in cui siamo per sentire se in quella accanto c’è qualcuno che risponde al nostro richiamo: ma la decodifica del toc toc contro il muro è ben altra cosa. Esistono altre soluzioni, che non siano quelle preconfezionate di un social come Facebook? Nell’ottica di “quanta energia uso per questa cosa e quale risultato ottengo”, ci sono altri modi di impiegarla?

Concludo con una pagina tratta da “Artecrazia” di Marco Scotini: più vicina forse al mondo dell’arte nel quale mi muovo, ma comunque applicabile anche a questi temi che stiamo trattando.

 

 

Quindi, semplificando: prima c’era la narrazione (il narratore, biologico, che mi racconta qualcosa che non posso vedere; i bestiari; la letteratura); poi è venuta l’esposizione (a cominciare da quella universale, la sua razionalità, la sua scientificità, l’illusione dell’assenza di un mediatore, in quanto l’oggetto è lì, davanti – vedi anche, quindi, la fotografia e il postulato che essa dica sempre la verità); infine c’è stata la nascita di altre esposizioni universali sul digitale, sugli schermi dei nostri computer e su quelli dei nostri cellulari: tutti possono esporre, e senza mediazione. Ma non c’è esposizione che sia immune a leggi di potere visibili e invisibili, e questo vale per un’opera d’arte tanto quanto un post di una foto di un bel tramonto – su Facebook. Oppure è un’alba? E’ un luogo pieno di pace, oppure quelle piccole ombre laggiù sono guerriglieri senza scrupoli? Il limite dell’orizzonte si potrà varcare, oppure si calpesta qualche immaginaria linea di confine rovente di nazionalismo e odio?

 

 

Per la prima pagina del diario Sfacebook, clicca qui; per la seconda, clicca qui.

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