Aggiornamento del 24 maggio 2019
Qualche tempo dopo i danneggiamenti dell’Unicorno d’Oro da parte di ignoti, Daniele D’Antonio riceve un messaggio dagli artisti anonimi:
La nuova unicornotizia viene anche ripresa da alcune testate web, tra cui Il Quotidiano Piemontese
Alle 15.00 di giovedì 23 maggio gli artisti anonimi non si presentano di persona alla Cabina dell’Arte Diffusa, ma aggiungono un altro pezzetto di storia a tutta la vicenda, facendo portare in piazza Peyron un cavallo, con tanto di cornetto in fronte
La nuova installazione – questa volta vivente – viene fotografata e ricondivisa sui social dal pubblico della Cabina dell’Arte, dai frequentatori di piazza Peyron e dai passanti che, sorpresi, si trovano di fronte ad un cavallo vero, o meglio ad un unicorno, tutti partecipando, consapevoli o meno, alla vita dell’unicornotizia.
Se vuoi sapere quello che è accaduto prima, leggi sotto.
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da “La Tempesta” di Shakespeare,
Atto terzo, scena terza
Sebastiano:
Fantocci vivi! Adesso
io crederò che esiston gli unicorni […]
Antonio:
[…] e quando un fatto avrà bisogno
di credenza da me venga e che è vero
ben giurerò. Non dicon più menzogne
ora i viaggiatori, non ostante
che sieno condannati dagli inetti
rimasti a casa!
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L’unicorno esiste in quanto notizia,
perciò lo chiamerò unicornotizia.
La prima unicornotizia di cui abbiamo traccia risale all’Indikà, opera di Ctesia di Cnido (440 AC – 390 AC), nella quale lo storico descrive la fauna e la flora indiana: tra tigri dal volto umano e tribù di cinocefali compare un certo cavallo con un corno ritorto in fronte, corno al quale vengono attribuiti poteri curativi. Lungo tutto il corso della storia umana l’unicornotizia viene ripresa e modificata: ne parlano i sumeri, compare nei bestiari medievali, si dice che solo una vergine le si possa avvicinare, gli Estensi a Ferrara ne fanno il proprio stemma, papa Bonifacio VIII ne usa il corno (secondo l’inventario del tesoro papale del 1295 ne ha ben quattro, di corni di unicornotizia) per controllare che il suo cibo non sia avvelenato, il sindaco di Magdeburgo Otto von Guericke espone ossa di unicornotizia, ritrovate in una caverna nei pressi di Scharzfeld (1663), il biologo americano Franklin Dove rimuove un corno da un toro adulto per impiantarlo al centro della fronte di un vitello (1933), il saggista Willy Ley attribuisce la nascita dell’unicornotizia al ricordo tramandato di generazione in generazione di un rinoceronte lanoso, ormai estinto, vissuto nelle steppe dell’Eurasia; secondo alcuni i corni di unicornotizia altro non sono che denti di narvalo, secondo altri l’unicornotizia deriva dai racconti di viaggiatori che in Africa hanno avvistato antilopi alcine, con un corno solo, a causa di un gene recessivo.
Con l’avvento delle grandi Esposizioni Universali di Londra, Parigi, Vienna e Filadelfia, dove al racconto di un narratore si sostituisce l’osservazione diretta dell’oggetto (che quindi non è più raccontato ma esibito dal vivo), l’unicornotizia sembra perdere di forza simbolica. E’ la prima grande menzogna (antecedente alla diffusione su larga scala della fotografia): “la presenza è oggettiva”, non c’è un narratore al quale dover prestare fede; e invece, più che mai nelle Esposizioni Universali, la scelta di cosa esporre e come è comunque appannaggio di una élite che vuole attribuirsi potere e ruolo centrale. E infatti da lì a poco arrivano le guerre mondiali e i genocidi.
Così, se è vero che l’unicorno si è estinto con la catalogazione di tutto l’esistente biologico, l’unicornotizia è sopravvissuta, forse proprio in virtù del suo essere sfocata e sfuggevole; è arrivata ai giorni nostri, J.W.Rowling la inserisce nel primo libro della saga di Harry Potter, Lady Gaga se la fa tatuare sulla coscia, come simbolo gay-friendly per il suo sostegno alla causa LGBT. E di un’unicornotizia scrive Daniele D’Antonio, postando sui social – nuove contemporanee Esposizioni Universali a portata di schermo – che nella notte tra domenica 24 e lunedì 25 febbraio un anonimo artista ha installato un unicorno dorato, nell’atto di attraversare metafisicamente la Cabina dell’Arte Diffusa di piazza Peyron, a Torino. L’unicornotizia viene ripresa anche da Quotidiano Piemontese, che racconta di questa installazione urbana insieme ai nuovi manifesti di Andrea Villa e ad una performance del collettivo Svergin_arte (leggi qui l’articolo)
Passano tre giorni, e qualcuno ruba il corno all’unicornotizia, che rimbalza di nuovo sulla Rete: sulla Cabina dell’Arte Diffusa compare la rivendicazione di paternità di anonimi artisti che, forse anch’essi presi contropiede dal furto, rilanciano promettendo nuove azioni. Gli anonimi artisti affiancano alla loro poesia in rima alcune foto della preparazione dell’unicornotizia, così da poter escludere dalla produzione narrativa altre possibili strade o versioni dei fatti: che sia stato Daniene D’Antonio stesso a creare l’innesco materiale dell’unicornotizia, oppure che sia solo una goliardata di buontemponi. Dietro a questo anonimato, tuttavia, aleggia un altro concetto: chi sono i proprietari / autori dell’unicornotizia? Coloro che ne detengono la narrazione, e ne costruiscono il mito un passo alla volta: i post della Cabina dell’Arte Diffusa, gli articoli sulla stampa che raccontano dei successivi danneggiamenti, gli artisti con gli scatti della preparazione dell’installazione, e in parte minore i commentatori dei post. Altri narratori però si affacciano sulla scena, contribuendo all’evoluzione dell’unicornotizia.
Ad un occhio attento non sfugge tuttavia che i social online e offline trascurano un aspetto della vicenda, al di là del romanzesco chi è stato a costruire / chi è stato a distruggere: ovvero, che cosa bisogna farne dei resti materiali dell’unicornotizia? Argomento non nuovo per gli addetti ai lavori, già affrontato da Anish Kapoor quando la sua scultura Dirty Corner, alla Reggia di Versailles, fu vandalizzata con scritte antisemite. L’artista propose di lasciare i graffiti così com’erano, e di considerarli rappresentativi di un periodo storico, ormai incorporati nell’opera stessa. Un numero ancora più esiguo di appassionati sa del famoso squalo in formaldeide di Damien Hirst, intitolato The Physical Impossibility Of Death In the Mind Of Someone Living, che se è vero che affronta il tema dell’impossibilità fisica della morte nella mente di un essere vivente, non dice che quel preciso squalo in realtà è il secondo, perché il primo – avendo sbagliato la percentuale di formaldeide – è ammuffito ed è stato sostituito: altre riflessioni sull’originalità o meno dell’opera d’arte dopo i consigli per gli acquisti.
Potremmo provare a mettere da parte per un attimo quello che abbiamo imparato dai libri, e giocare con le definizioni, dividendo tutta l’arte in due grandi blocchi: quella che le istituzioni cercano di legittimare e preservare, ponendola all’interno di una cornice (che sia una cornice vera e propria, oppure la cornice simbolica di una galleria oppure di un museo) che la separi e la difenda dall’esterno, dalle contaminazioni, che la imbalsami a rappresentare un segmento di storia dell’arte, proteggendola dai cambiamenti veloci naturali e innaturali (ma non dai cambiamenti lentissimi, dovuti alle leggi naturali di questo universo, entropiche e termodinamiche, inesorabili); e poi c’è un altro blocco, quello dell’arte che fa anche del suo mezzo di comunicazione una parte integrante dell’opera stessa, in un divenire magmatico difficile da catalogare e da dissezionare, rendendo arduo porre la linea ideale che divide l’opera dal suo racconto, ovvero capire dove inizi la notizia e dove finisca l’opera, chi ne sia davvero il proprietario, se chi l’ha costruita oppure chi la racconta.
Forse addirittura chi la distrugge.
“…hanno bisogno di te
per far sì che la loro vita
valga almeno la rovina
della vita di qualcun altro.”
da “Un’isola”, La rappresentante di lista.
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Letture consigliate:
– Solitudini connesse, J. Franchi, Agenzia X Editore
– Il paesaggio che siamo e che viviamo, S. Tagliagambe, Castelvecchi
– Imperdonabili, M. Veneziani, Marsilio
– Alterità, F. Jullien, Mimesis
– Il lato oscuro di Google, Ippolita, edizioni Milieu