La sveglia suona, apro gli occhi, e sono l’uomo più stufo del mondo.
Come un baco da seta ho trascorso la mia esistenza a mangiare. Anche con gli occhi, con le orecchie, con tutto il corpo. Una macchina perfetta, tutta compresa in se stessa e nel suo bisogno insaziabile. In quegli anni, ingenui prima e inconfessabili poi, ho decorato questa voracità di poesia: ho attribuito un valore trascendente alla mia voglia senza fondo di novità, di sapere, di provare, di sperimentare, quando la verità era molto più disadorna: se non avessi mangiato sarei morto, e questo andava contro il principio di autoconservazione. Ecco il primo assurdo ricatto del mio retaggio genetico. Quando nasci, non puoi fare a meno di respirare, di cercare cibo, riparo, calore. Ho sempre sentito il peso del dover trovare, da solo oppure in compagnia, le giustificazioni per farlo.
Spengo la sveglia. Le opportune contrazioni muscolari e mi siedo nel letto, mi alzo in piedi, raggiungo il bagno – le piante dei miei piedi cedono calore alle piastrelle fredde – poi vado in cucina. E con questo ho perso 100 chilocalorie. Chilocalorie da bruciare, chilocalorie da reintegrare, in un ciclo che vorrebbe ripetersi all’infinito, e invece no. Secondo alcuni l’invecchiamento è un evento geneticamente programmato (hai svolto il tuo compito, non consumare più risorse e lascia spazio agli altri della tua specie), secondo altri il metabolismo mitocondriale produce radicali liberi ossidanti che danneggiano DNA e macromolecole. Obsolescenza programmata, oppure difetto di progettazione.
Mentre aspetto che il caffè salga nella caffettiera, mastico un biscotto e guardo senza lo stesso piacere di qualche anno fa la libreria davanti a me. Il contesto sociale e culturale in cui sono nato è stato il parco giochi perfetto, la possibilità di attingere al sapere di chi ha detto tutto e il contrario di tutto, così che la mente fosse sempre in giostra, e mai da sola nell’imbarazzo da ascensore con il vicino di casa dei processi chimici che la dominano. Guardo tutti i miei libri, e immagino quelli presenti nella biblioteca pubblica della mia città, e tutte le biblioteche del mondo, questa enorme domanda da formulare nel modo giusto, prima ancora di provare a dare una risposta.
Come un baco da seta, un giorno qualsiasi, senza che fosse accaduto nulla di significativo, ma le lancette del mio orologio genetico erano scattate, ho smesso di mangiare. Ho iniziato a vomitare tutto quello che avevo immagazzinato nel corso degli anni, sintetizzandolo in un filo sottile eppure resistentissimo, che è diventato il mio bozzolo. Impermeabile a qualsiasi novità che potesse intralciare la mia trasformazione, ecco la seconda assurdità della mia natura: non era questione di saziarsi, bensì sarebbe servito per qualcosa che mai avrei detto.
Al sicuro e imprigionato nel mio bozzolo, sento in lontananza il brusio degli slogan del mondo, gli inni nazionali per marciare a tempo, il groviglio di edere rampicanti delle parole che fanno la storia e le sue semplificazioni menzognere, le ninnenanne per riuscire a dormire alla sera. Oggi lavoro, domani sarò di riposo, mi aspetta un mese di impegni gravosi, poi sarò in ferie: croce e delizia di un’altalena che crea il problema per venderti la soluzione, l’ondeggiare del pendolo dell’ipnotista che ti convince che al dolore non può che seguire la gioia, la segreta presunzione meschina del meritarsi qualcosa e perché. Il mio capoufficio lascia sulla mia scrivania due dossier di documenti da controllare. Osservo passare in lontananza, come navi all’orizzonte battenti bandiera di un paese a me sconosciuto, sentimenti che tempo addietro mi avrebbero preso alla gola, e su per le tempie: odio per il suo modo di fare sgarbato, nausea per l’inutilità di tutta questa carta stampata, frustrazione per le mie aspettative – che ho imparato a chiamare pretese – di qualità di vita migliore. Ora, invece, sono increspature leggere sulla superficie piatta di un lago vuoto, fenomeni transitori, senza importanza, da qualche parte sul fondo dell’oceano due balene azzurre stanno cantando il loro richiamo d’amore, così come facevano i loro progenitori cinquanta milioni di anni fa, nel Gabon centrale una femmina di cercopiteco dalla coda dorata sta scegliendo con cura l’albero dove trascorrere la notte insieme al suo cucciolo, la neve sta cadendo a fiocchi lenti e morbidi sui ghiacciai millenari dell’Himalaya.
Torno a casa alla sera, e continuo a essere l’uomo più stufo del mondo. E’ passato molto tempo da quando riuscivo a far scattare dentro di me l’interruttore che trasformava le scocciature in rabbia e la rabbia in azione. Mi preparo cena, accendo la televisione e mi stupisco di come le voci dei personaggi di un film che seguo solo a tratti riempiano lo spazio del mio soggiorno, mi scopro a fissare dettagli del mio appartamento come se li vedessi per la prima volta, estranei; e i dialoghi del film accendono altri pensieri, e un ricordo, e poi un altro, e un altro ancora, come un topo da laboratorio che corre nel labirinto alla ricerca del formaggio, dietro all’ultima svolta, e poi a quella, e a quell’altra ancora.
Come un baco da seta, so che un giorno mi sveglierò falena. Non avrò più bocca per mangiare, e nemmeno per parlare. Avrò le ali, e una fiamma mi attirerà irresistibilmente verso la successiva transizione, chissà se conserverò il ricordo delle mani rugose di mio nonno, di quel gelato che si scioglieva al caldo di una gita fuoriporta con la donna che ho amato, della trasparenza delle tende della mia camera da letto che dà sulla strada trafficata del centro di questa città, dove tutti vanno da qualche parte per qualche ragione; oppure se le differenze di potenziale elettrico tra i neuroni del mio cervello semplicemente si disperderanno nell’entropia di una nuova forma e saranno perse per sempre.
Nel frattempo, mentre aspetto il sonno disteso sul letto, l’orecchio appoggiato al polso, sento il bisbiglio del sangue che scorre nelle cavità buie delle mie vene, assisto alla mia attività polmonare come ad un fenomeno indistinguibile dalla risacca del mare, come spettatore solitario di fronte a qualcosa di enorme e indifferente, e la sua imperturbabilità è come la notte attorno al primo uomo che ha fatto scintillare l’ansia della sua pietra focaia; qualcosa di più vasto di qualsiasi sogno abbia mai potuto immaginare nella mia vita, e che mi sovrasta, e travalica.

Fantastico delirio.
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Antonio Vivaldi
“Il delirio fantastico”
Chamber Concerto in D minor RV 96.
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È la colonna sonora della tua vita?😄
Buongiorno.
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No, semplice link mentale al tuo commento precedente 🙂
Buona giornata anche a te.
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Ma certo, scherzavo. 😜
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Grazie per avermi scritto, seguo il tuo blog.
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Anche io seguo il tuo. Mi piace molto come scrivi, quindi, grazie anche a te.
Solo una cosa… Se mai ti dovesse capitare di andare sulle mie categorie, per leggere qualcosa, sappi che sotto ogni titolo c’è un link sul quale cliccare. Te lo dico perché molti non lo fanno e credono siano pagine vuote. Non sono avvezza alla tecnologia e non ho idea di come evidenziare le mie pagine. Tutto qui.
A presto, ragazzo.
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